Non ci si improvvisa “presidenti”. Non si inizia ad amare il calcio o una maglia per casualità legata esclusivamente ad interesse. O comunque, ci vuole tempo, passione, dedizione, sacrificio, fisico ed economico.
Ovvero, ciò che Oreste Vigorito e prima ancora suo fratello Ciro hanno speso, giorno dopo giorno, da quel marzo del 2006, quando sono giunti in città a risollevare (loro sì!) le sorti del club calcistico giallorosso.
Il BENEVENTO, è entrato nella loro vita così. Sicuramente indotto, ma poi s’è tramutata in autentica -onerosa- passione. Perché per fare calcio, oltre i soldi, ci vuole passione.
Il calcio è entrato nella mia vita quando avevo 5/6 anni. L’album, le figurine da attaccare con la colla “coccoina”, che alla fine lo rendeva pesante e spesso quanto un’enciclopedia. Le bisvalide, Pizzaballa, portiere “perticone”, lui il doppione (“celo, celo, manca, manca”… vero?) per eccellenza. E poi “le suppliche” a mio padre per vedere in tv almeno i primi servizi con azioni e goal alla Domenica Sportiva, che all’epoca trasmettevano in tarda serata.
Ricordo ancora le immagini dell’invasione-scudetto allo stadio Amsicora di Cagliari: tutto rigorosamente in bianco e nero e nel mio immaginario di bambino quelle persone e le città erano davvero così, prive di colori, solo poche, fredde e monotone sfumature di grigio.
Immagini, tra l’altro spesso molto sfocate, delle parate di un giovanissimo Zoff, sempre troppo serio nel suo completino nero, Romeo Benetti la roccia, le parabole su calcio d’angolo di Luciano Chiarugi, le magie del biondissimo Ugo Tosetto, il “Keegan della Brianza”. «Ma dove accidenti sarà ‘sta Brianza?» Mica lo sapevo!
Poi il calcio vero, quello che ha iniziato a scorrermi nelle vene dal primo istante in cui ho messo piede nel glorioso “Campo sportivo municipale Gennaro Meomartini”, a vedere il BENEVENTO.
La polvere di pozzolana, la gente in piedi sui muri di cinta dei “distinti” verso il fiume Sabato, i balconi di Via Napoli più affollati e colorati della tribuna, il “gatto” Salvatici ad infiammare la platea con i suoi balzi felini da un palo all’altro ed io aggrappato alla rete di recinzione con le mani strette e sempre macchiate dalla ruggine, a pochi centimetri dai calciatori, i miei idoli.
L’odore dell’alcol canforato, le scarpette di riserva buttate a terra davanti a me, io potevo addirittura leggerne il numero e il nome, scritto con il pennarello, del calciatore al quale appartenevano e che oramai l’umido ed il tempo avevano sbiadito. Si percepiva molto bene l’acre odore non proprio sopraffino di “grasso di foca” spalmato in abbondanza per ammorbidirle e proteggerne il prezioso pellame.
Il BENEVENTO mi sbocciò nell’anima, così, facendo breccia nel mio cuore di bambino, negli infiniti sogni zeppi di Coppe Rimet, e palloni di cuoio con i lacci. Pensandoci, il primo ricordo nitido è la calca agli ingressi, quella confusione multicolore e rumorosa ad attenderci già agli ingressi al campo, attraverso gli strettissimi portoncini arrugginiti di Via Napoli.
Immancabili –ovviamente- gli sfottò ai limiti dell’offesa per i tifosi “oversize” che, affannosamente e a malapena, riuscivano a varcare quella soglia: sul muso ancora i segni del ragù domenicale o lo zucchero a velo di una millesfoglie… Conseguente risposta di costoro, lanciata ovviamente a caso visto il trambusto, un turpe “rosario” di blasfemie e il richiamo alle virtù non proprio da clarisse delle donne di famiglia.
Non mancavano mai, nell’assoluta confusione, i “sementari” che trascinavano faticosamente le loro ceste ricolme di semi di zucca e ceci abbrustoliti, calpestando e spintonando tutto e tutti. In bilico i “cuoppi” di carta che fungevano da contenitori, sapientemente preparati con vecchie schedine del totocalcio o pagine ingiallite di rotocalchi. Qualche volta capitava che tali pagine fossero state strappate a giornali scabrosi e quindi immaginabili i commenti di chi, poi, riceveva il desiderato cartoccio di “passatiempo”…
Ovviamente i più furbi, nella confusione, allungavano le mani nella cesta rubacchiando un po’ di semi tra le -ancora!- irripetibili parolacce del venditore che, probabilmente, già aveva calcolato una certa percentuale di perdita del prodotto da vendere. “Peppe”, così si chiamava il più conosciuto tra i venditori e al nome s’aggiungeva un cinico soprannome dovuto ad una visibile menomazione fisica: “mezarecchia”. Il resto, lo lascio all’immaginazione.
Però alla fine nessuno si offendeva davvero, anzi, la mia sensazione era che alle vittime predestinate un po’ facesse piacere essere al centro di tanta attenzione. Un modo, magari strano, per sentirsi considerati.
Urla, risate, richiami e fischi per attirare l’attenzione di qualche amico “troppo avanti” nella fila per sentire.
I primi cori, il tam-tam ritmato dei tamburi a creare l’ambiente giusto per caricare tifosi e i primi calciatori nelle loro tutine in acrilico attillatissime, quasi a mo’ di collant, a fare palleggi e corsetta sul campo.
Tanta la confusione, vero, ma la magia del Meomartini era unica. Magia incredibile anche quella che, nonostante il caos assoluto, ognuno aveva il suo “posto”, assegnato di diritto dalla lunga frequentazione di quel luogo e non certo perché sancito dal biglietto.
Ognuno di noi già sapeva dove mettersi e chi fosse il vicino di gradinata.
Una regola non scritta ma rispettata e garantita dalla presenza dei più anziani che, o con le buone o con qualche frase adeguata (all’ambiente), riuscivano a gestire la disposizione, apparentemente casuale, dei tifosi nei vari settori.
Apparentemente, perché a “cose fatte” spiccava sempre l’assente di turno. Conseguenza logica, la domenica calcistica successiva c’era la domanda di rito: «Uè, ma addò stiv dumeneca scorsa, che nun t’eggiu vist?» Alla faccia della privacy, diremmo oggi!
Volti, mani, sorrisi, occhi avidi di gioie, le vite di ognuno di noi che, per un paio di settimane sicuramente non s’erano incontrate ma adesso erano tutte lì riunite. Vite e storie personali.
Incredibilmente con la stessa voglia, calamitati dalla medesima passione su quei gradoni diroccati, pure se per tanti giorni c’eravamo vicendevolmente “ignorati”, perché ognuno preso dalle proprie faccende, il lavoro o in qualche caso, da tristi vicissitudini personali, di un’esistenza ai limiti del vivibile.
Più semplicemente, durante la settimana lavorativa, tutti presi da umana ed egoistica distrazione, invece la domenica eravamo lì a comporre una famiglia “unica”!
Certo, famiglia “allargata”, di proporzioni esagerate, ma quello era una sorta di sicuro rifugio, il luogo dove trasformarsi in tassello umano del puzzle che di li a poco avrebbe fatto da fondale vivente allo spettacolo che andava ad iniziare. La solita piece: “Epopea del calcio minore”. Da noi beneventani, purtroppo, imparata a memoria.
Ricordo un ambiente non da educande ma neppure quel girone infernale che mia madre, poverina, immaginava ogni qualvolta mi vedeva -impotente- scappare via da casa quando ancora i fusilli o le tagliatelle non avevano ancora trovato la loro “fine” nell’acqua bollente. «S’è fatta ora mamma, faccio tardi!»
Faccio tardi, come se mi aspettasse l’ultimo treno per chissà dove, invece era solo l’impazienza di una corsa a perdifiato che terminavo se non quando finalmente intravedevo, percorrendo via Napoli verso il Rione Libertà, la gobba del ponte “Santa Maria degli Angeli” sul fiume Sabato.
Solo giunto lì la mia ansia si placava, con la visione delle prime bandiere, un mondo colorato di giallo e rosso che per nulla al mondo avrei lasciato. Nemmeno per quelle tagliatelle deliziose impastate con acqua, farina e amore di mamma. E che, ovviamente, NESSUNO dovrà mai toccarmi.
Per nulla al mondo avrei rinunciato a vivere certe emozioni e lei per nulla al mondo m’avrebbe trattenuto a casa, nonostante il cerimoniale della festa.
Una mamma in fondo è sempre partecipe delle passioni d’ogni figlio, anche se questo, poi, le costa sacrifici, rinunce e qualche lacrima.
Sono passati tanti anni. Di acqua ne è passata sotto il ponte Santa Maria degli Angeli. I miei capelli sono ingrigiti, le rughe solcano il viso. Sono padre, di un figlio che come me ama il calcio, la stessa maglia giallorossa. Identica passione, la dimostrazione che questo amore si tramanda, di padre in figlio, appunto.
E’ la mia storia, ma potrebbe essere quella di altre migliaia di tifosi della nostra Città e della Provincia. E Pallotta, tutto questo non lo sa, e non potrà mai comprenderlo. Lui presidente, ma con la P maiuscola, non lo sarà mai, almeno per noi tifosi giallorossi. Anche se rimanesse qui 20 anni. Quindi, che vada via, e lasci immediatamente il BENEVENTO nelle mani di chi lo ama, a chi ha passione, oltre alle capacità. Lo faccia subito, glie ne saremo eternamente grati.
Bellissimo,leggendo sono ritornato con la mente a otto anni, grazie.